Jean Dominique Bauby, il protagonista della nostra storia, viene colpito, a soli 43 anni, da un grave ictus che lo inchioda a un letto d’ospedale. Rimane in coma per più di 20 giorni finché, contro a ogni aspettativa, si risveglia. Eppure, quasi istantaneamente, Jean si rende conto che qualcosa, dentro di lui, è cambiato per sempre.
L’uomo non riesce a rispondere ai sorrisi della moglie o alle carezze dei figli e, sebbene in un primo momento la sua condizione venga considerata transitoria, i medici si trovano presto costretti a pronunciare una diagnosi molto severa: Jean Dominique Bauby è affetto della sindrome del locked-in, che provoca una paralisi totale e irreversibile di tutti i muscoli volontari del corpo. E così, a Jean viene precluso qualsiasi tipo di contatto con il mondo esterno. La sua sofferenza è ulteriormente acuita dal fatto che, contrariamente a ciò che gli accade in tutto il corpo, la sua mente è lucida e altrettanto reattiva. All’uomo rimane soltanto un’impercettibile finestra sul mondo che gli consente di stabilire un contatto, seppur effimero, con le altre persone: i suoi occhi e la sua palpebra sinistra.
Jean, dunque, si trova di fronte a un bivio: può decidere di abbandonarsi al senso di irrimediabilità che la sua condizione comporta, oppure tentare di reagire.
Jean Dominique Bauby sceglie la vita.
Attraverso il movimento della sua palpebra, delicato e impercettibile come le ali di una farfalla, Jean ritrova la capacità di comunicare. Sbattendo una volta la palpebra, Jean dice di sì, due volte significano no. Sempre con un battito di ciglia, ferma un interlocutore su una lettera dell’alfabeto che gli viene recitato. Jean, però, non si limita solamente a comunicare i suoi bisogni e desideri ma decide, grazie all’aiuto di un infermiere collaboratore, Claude Mendibil, di scrivere la propria autobiografia.
Lo scafandro e la farfalla (Le scaphandre et le papillon) viene pubblicato nel 1997 e rappresenta la cronaca degli eventi giornalieri di una persona affetta dalla sindrome del locked-in. Jean Do, come amava farsi chiamare dagli amici, paragona la propria mente a una farfalla, leggera, colorata e vivace, imprigionata in uno scafandro, rigido e incontrollabile proprio come il suo corpo. Per realizzare il libro, ci sono voluti circa 200.000 battiti di ciglio; per comporre una sola parola occorrevano circa 2 minuti. Nel 2007, l’enorme successo letterario che riscosse il libro stuzzicò l’interesse del regista Julian Schanbel che decise di realizzarne un film, con cui si aggiudicò la vittoria del premio per la miglior regia al 60esimo Festival di Cannes.
L’eredita che ci ha lasciato Jean, però, è ben più grande di una testimonianza medico-letteraria e di una descrizione puntuale delle possibili conseguenze di un ictus: il suo intento era, piuttosto, quello di spronare i suoi lettori. Spronare ad abbracciare, a urlare, a correre, a giocare, a ballare, a sentire, a vivere fintanto che il nostro corpo ce ne conceda la possibilità.
Perché, in fondo, la differenza tra noi e Jean è una sola: noi viviamo in uno scafandro più clemente del suo.